Nessuno controlla i circoli culturali, si lamentano i baristi e i ristoratori. Eppure qualche sorpresa c’è stata. A Mignanego, 3.300 anime in provincia di Genova, i carabinieri che hanno suonato al campanello dell’Arci «Più o meno» non hanno interrotto il solito cineforum sul realismo sovietico, o un dibattito sulla pace nel mondo. Ma un’allegra maratona di sesso di gruppo. «Qual è il problema? – ha risposto scocciato il titolare, Francesco I., quando gli hanno ritirato l’autorizzazione – Il sesso è cultura, e l’orgia rappresenta un momento di aggregazione». E ancora: «In due sere ho portato all’Arci 130 soci, roba che neanche in un mese di Feste dell’Unità». L’Arci Bitte di Milano – 900 metri quadrati con ristorante, giardino e libreria – in sei mesi di soci ne aveva fatti addirittura 12 mila. Un record, in una città tradizionalmente non proprio «rossa». Poi a maggio sono arrivati i vigili urbani e hanno messo i sigilli. Il motivo? «Non agivano da semplice circolo, erano un locale pubblico a tutti gli effetti». Il presidente dell’Arci milanese, Emanuele Patti, l’ha presa malissimo: «Quel circolo si è inserito in un certo circuito di locali milanesi, cui evidentemente dà fastidio».
Su questo l’Arci ha perfettamente ragione. Il Bitte dava molto fastidio ai proprietari dei locali pubblici. E danno altrettanto fastidio i 34 mila «circoli culturali e ricreativi» italiani che vendono cibo e bevande (anche alcoliche, naturalmente) ai loro soci. Perché fanno un giro d’affari – denuncia la Fipe, Federazione italiana dei pubblici esercizi – di 5,5 miliardi di euro l’anno. Praticamente esentasse. E danno lavoro a 80 mila dipendenti mascherati da «volontari», pagati solo attraverso un rimborso spese, pochi euro all’ora senza contributi. Quanto ci rimette lo Stato? Oltre un miliardo di euro all’anno. Per intenderci, con quei soldi in cassa il governo potrebbe triplicare la «social card».
Solo l’Arci, «l’associazione culturale e ricreativa italiana» – che per statuto «si riconosce nei valori democratici nati dalla lotta di liberazione contro il nazifascismo», «promuove cultura, socialità e solidarietà» e che ha aderito allo sciopero generale della Cgil di venerdì –, ha 5.577 circoli sparsi per l’Italia, e conta la bellezza di un milione, 150 mila e 393 soci. Venerdì sera al circolo Magnolia di Milano c’erano centinaia di giovani, fino alle 4 del mattino. Per discutere di antifascismo? No, la meglio gioventù ha ballato fino all’alba al ritmo del dj set «Fucked from above», tra una Guinness media (4 euro) e un mojito (7). Già, proprio quello che si fa all’«Hollywood», la discoteca delle veline e dei calciatori, anche se lì la coda all’entrata è più lunga e i clienti per vestirsi seguono un codice diverso.
I punti ristoro dei circoli Arci non pagano l’Iva, non pagano imposte dirette e nemmeno quelle locali. In pratica devono versare solo la tassa dei rifiuti ma in versione «ridotta», pari a un quinto di quella pagata da bar e ristoranti. Risultato: il «punto ristoro» di un circolo risparmia rispetto a un bar il 24% del giro d’affari in sconti fiscali e un altro 12% in risparmi sul costo del lavoro.
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